6/10: CONTATTI FRA LE CULTURE PRECOLOMBIANE DELL’AMERICA E I POPOLI DI TUTTO IL MONDO ANTICO – I ROMANI ARRIVARONO IN AMERICA?

CATEGORIA: CONTATTI FRA LE CULTURE PRECOLOMBIANE DELL’AMERICA E I POPOLI DI TUTTO IL MONDO ANTICO / AMERICA PRECOLOMBIANAMISTERI ITALIANI / LIBRI CONSIGLIATI

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Illustrazione a cura di Misteri del Passato

Durante la mia ricerca alla scoperta di indizi che facciano presuppore che le Americhe furono scoperte da antiche civiltà prima di Colombo, mi sono imbattuto in un video su YouTube, di un’interessante conferenza del divulgatore scientifico Elio Cadelo, autore del libro “Quando i romani andavano in America”, un libro davvero molto interessante che chiaramente, ho voluto subito acquistare e leggere dopo aver ascoltato le interessanti informazioni che l’autore forniva nella sua conferenza (in fondo all’articolo troverete i link dei suoi video). Il suo libro, pubblicato da Palombi Editori, con la prefazione di Giovanni Bignami, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, a mio parere, è un’opera davvero importante, leggendolo vi si trovano svariate informazioni e indizi interessanti, utili per approfondire una possibile interazione tra il grande e potente Impero Romano e le culture sorte nel Nuovo Mondo. Non solo, l’autore fornisce prove convincenti, riportando alcune scoperte  archeologiche che riguardano gli antichi scambi commerciali fra i popoli delle Americhe e le grandi flotte romane, e rilascia incredibili rivelazioni sull’antica navigazione dei popoli di tutto il mondo. Elio Cadelo con la sua opera dimostra che l’Impero Romano, quando diventò la superpotenza del Mediterraneo, possedeva enormi flotte che navigarono per tutto il mondo, riuscendo ad approdare anche in America, in quel lontano continente oltreoceano da dove i romani portarono indietro con sè frutti come l’ananas, o la mela da zucchero, che sempre secondo l’autore, gli artisti avrebbero poi inserito successivamente in alcuni splendidi mosaici, come quelli ritrovati a Pompei, oppure in alcune statue e bassorilievi. L’autore fa anche luce su quelle che sono le origini di molti dei prodotti alimentari alla base della nostra cucina italiana, importati proprio dai romani, che trasformarono il nostro territorio in una delle più ricche aree agricole dell’epoca. Secondo Cadelo infatti, i romani importarono frutti e piante esotiche in Italia da territori molto lontani, conquistati o anche solo esplorati, allestendo così il più rigoglioso “giardino dell’Occidente”. Le seguenti immagini, vi mostrano le presunte ananas rappresentate in alcune antiche opere romane.

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La prima statuetta a sinistra, oggi conservata al Museo d’Arte e Storia di Ginevra, è di epoca romana e risale al III secolo d.C., ritrae un bambino con in mano quella che secondo Cadelo dovrebbe essere un’ananas. All’interno del sontuoso cesto di frutta ritratto nel mosaico di epoca romana che potete vedere in alto a destra, ora esposto al Museo del Palazzo Massimo alle Terme di Roma, sembra esserci proprio un’ananas. Secondo l’autore, un’altra ananas la si può vedere sulla tavola posta fra i due serpenti al centro dell’affresco  romano proveniente dalla Casa dell’Efobo a Pompei, foto in basso a destra. Ricordo che già tempo fa, si parlava di questi particolari dettagli all’interno di alcune opere romane, il dibattito è aperto ormai da diversi anni, e secondo molti storici e studiosi, quelli raffigurati altro non sono che pigne, oppure altri strani frutti provenienti dall’India o dal sud-est asiatico, come ad esempio il Dragon Fruit. Ma chi conosce questo frutto, può confermare che non somiglia affatto ai frutti proposti in queste opere di epoca romana. Io stesso durante alcuni viaggi in Indonesia andavo matto per i frullati di Dragon Fruit, e vi posso assicurare che sono completamente diversi da tutti quelli che ritroviamo in questi manufatti. Quindi di che frutto si tratta, forse una pigna? Quest’ipotesi nasce dal fatto che alcuni ricercatori, hanno fatto notare che nel mosaico romano, probabilmente quel “ciuffo” fatto di foglie che andrebbe a completare la presunta ananas, non farebbe in realtà parte dello stesso frutto, ma sarebbe stato aggiunto dall’artista per bilanciare l’immagine, dato che dall’altra parte del cesto, è stato inserito un altro dettaglio di foglie. Inoltre alcuni scettici, ribattono affermando che se avesse voluto rappresentare davvero un’ananas, l’artista l’avrebbe dovuta raffiguarare più grande rispetto agli altri frutti presenti nella scena, come ad esempio l’uva o i melograni appena di fianco. E su questo sono completamente d’accordo. Quindi quel frutto all’interno del cesto, secondo alcuni, sarebbe in realtà una pigna, qui di seguito potete vedere l’intero mosaico e il dettaglio della presunta ananas o pigna, a voi le conclusioni.

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Devo essere onesto, ammetto che quella raffigurata in questo mosaico, a parte la dimensione poco coerente, mi ricorda proprio un’ananas, sia per la sua stessa struttura e forma, sia per il colore, così come i frutti presenti nelle altre opere di epoca romana presentate da Cadelo. Tuttavia, riconosco che questi potrebbero anche essere altri generi di frutti, che in qualche modo ai nostri occhi risultano essere molto simili all’ananas. Credo che una risposta definitiva a questo quesito non ce l’avremo mai, ognuno giustamente intrepreta le immagini a proprio piacere.

Ma una prova significativa presentata da Elio Cadelo, riguarda il ritrovamento di un relitto romano davanti alle coste toscane, naufragato fra il 140 e il 120 a.C. a causa di una tempesta. Ebbene su questa nave viaggiava anche un medico, ritrovato al fianco di una valigetta con ancora al suo interno i ferri chirurgici, le bende, alcune fiale, e delle scatolette ancora chiuse contenenti delle pastiglie composte da frammenti di diversi tipi di vegetali, che sottoposti ad analisi del Dna, hanno confermato trattarsi in parte di Ibisco, una pianta che poteva trovarsi solo in India e in Etiopia, e semi di girasole. Ma come ci insegna la Storia, il girasole, fu importato nei territori europei all’inizio del XVI secolo, solo dopo che gli spagnoli conquistarono le Americhe. Il girasole è infatti originario delle Americhe, coltivato dal ricco regno del Perù fin dal 1000 a.C., non solo, gli Incas consideravano questa pianta come l’immagine del loro Dio sole, venerandola durante le loro cerimonie religiose. Quindi, se la storia ufficiale è corretta, com’è possibile trovare i semi di questa pianta all’interno di alcune pastiglie rinvenute in un relitto di epoca romana?

L’idea che le flotte romane siano riuscite ad affrontare delle spedizioni attraverso l’Oceano Atlantico, in generale viene respinta dagli accademici e considerata come un’impresa impossibile per l’epoca, soprattutto se ci si ostina ancora a credere che le antihe civiltà erano prive di conoscenze geografiche, climatiche, e astronomiche, ma Elio Cadelo col suo saggio, ci aiuta a comprendere meglio che tipo di cognizioni scientifiche possedevano i popoli del passato. Ad esempio, fin dalla scuola elementare, ci viene spiegato che ancora nel Medioevo, l’uomo credeva che la Terra fosse piatta, e che oltre le Colonne d’Ercole (l’attuale Stretto di Gibilterra), gli antichi imperi, come appunto quello romano, non erano in grado di navigare con le loro imbarcazioni. Ma tutto ciò, come spiega Cadelo, è tutta un’invenzione. Avvelendosi di stralci di testo stilati da illustri storici e naturalisti dell’epoca, come Tacito, Plinio il Vecchio, Cicerone, Erodoto, Seneca, Plutarco ecc. ecc., l’autore fornisce un quadro molto più coerente e completo rispetto alle conoscenze scientifiche dei Romani. Ad esempio, per quanto riguarda la sfericità della Terra, Gaio Plinio il Vecchio, scrittore, ammiraglio e naturalista romano vissuto nel primo secolo d.C., scriveve nella sua “Naturalis Historia”, libro II:

“Il mondo, e tutta questa realtà che, con una altro nome, piace chiamare «cielo», nella cui curvatura si raccoglie ogni vita, è giusto reputarlo una divinità, eterna, sconfinata, senza origine né morte. La sua forma è arrotondata in un globo perfetto, come insegna anzitutto il nome di «globo» su cui si accorda l’umanità, ma anche per indizi concreti: non solo perché una figura del genere converge su se stessa in tutte le sue parti, e deve sostenersi da se stessa, si racchiude e si compatta in sé senza avere alcun bisogno di impalcatura, senza conoscere né fine né inizio in alcuna delle sue parti; non perché una figura simile è la più adatta a muoversi, e si muove di continuo, come presto sarà chiaro; ma perché anche gli occhi confermano questa idea: dovunque lo si guardi, appare come una curvatura osservata dal centro, il che, con altre forme geometriche, sarebbe impossibile. Dunque, questa sua forma, in una rivoluzione eterna e instancabile, con inesprimibile velocità, gira su se stessa nel tempo di ventiquattro ore: il sorgere e il tramontare del sole non ammettono dubbi in proposito. Sarà incommensurabile, superiore alla sensibilità del nostro udito, il suono di una massa così grande che ruota senza posa? Io non saprei dire facilmente, né mi sarebbe più facile, lo giuro, chiarire se il risuonare delle stelle, che sono trasportate insieme ad esso e descrivono le loro orbite, sia davvero una dolce armonia, di una soavità incredibile”.

Oppure Cicerone, che è stato un famoso avvocato, politico, scrittore, oratore e filosofo romano, nella sua importantissima opera dal titolo “Somnium Scipionis”, al capitolo III scrive:

“Gli uomini sono stati infatti generati col seguente impegno, di custodire quella sfera là, chiamata terra, che tu scorgi al centro di questo spazio celeste; a loro viene fornita l’anima dai fuochi sempiterni cui voi date nome di costellazioni e stelle, quei globi sferici che, animati da menti divine, compiono le loro circonvoluzioni e orbite con velocità sorprendente. Nota, inoltre, che la terra è in un certo senso incoronata e avvolta da fasce: due di esse, diametralmente opposte e appoggiate, sui rispettivi lati, ai vertici stessi del cielo, s’irrigidiscono per la brina, mentre la fascia centrale, laggiù, la più estesa, è arsa dalla vampa del sole. Al suo interno, due sono le zone abitabili: la regione australe, là, nella quale gli abitanti lasciano impronte opposte alle vostre, non ha nulla a che fare con la vostra razza; quanto a quest’altra, invece, che abitate voi, esposta ad aquilone, guarda come vi tocchi solo in misura minima. Nel suo complesso infatti la terra che è da voi abitata, stretta ai vertici, più larga ai lati, è, come dire, una piccola isola circondata da quel mare che sulla terra chiamate Atlantico, Mare Magno, Oceano, ma che, a dispetto del nome altisonante, vedi bene quanto sia minuscolo”.

Nel Medioevo, le persone non credevano sicuramente che la Terra fosse piatta, e tantomeno lo pensavano i “collaboratori” della Chiesa Cattolica. Questa purtroppò è una vera bufala, messa in circolo dalla metà dell’Ottocento attraverso alcuni libri e articoli, dai sostenitori del Positivismo (per chi volesse approfondire questo discorso, in fondo all’articolo lascio un link interessante). Come dimostrato, già all’epoca dell’Impero Romano, i naturalisti e gli storici erano a conoscenza che la Terra fosse sferica, in questo articolo ho voluto inserire solo una citazione di Plinio il Vecchio e una seconda di Cicerone, ma in realtà, studiando proprio questo tema, si riscontra che molti altri storici, e popoli antichi, come ad esempio i Greci, ancora prima dei Romani conoscevano l’esatta forma del nostro pianeta. Addirittura Aristotele, il famoso filosofo, scienziato e logico greco antico, vissuto nel terzo secolo a.C. e considerato insieme a Platone e Socrate come uno dei padri del pensiero filosofico occidentale, quasi 2000 anni prima della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, affermava che navigando verso ovest,  si potevano raggiungere le Indie, e molti altri testi latini parlano di nuove terre ad ovest.

Anche l’idea che le flotte navali in antichità non superassero le Colonne d’Ercole è ormai superata. D’altronde basterebbe osservare una semplice mappa geografica che riporta i territori occupati dall’Impero Romano, per capire che essi possedevano già numerose regioni e porti che si affacciavano sull’Atlantico.

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Territori come la Terraconensis, la Lusitania e la Mauretania Tingitana, che occupavano gran parte dell’attuale Spagna, tutto il Portogallo e il nord del Marocco, offrivano alle navi romane un accesso diretto all’oceano, così come l’Aquitana, la Lugdunensis, la Belgica e la Britannia, regioni che si trovavano poste più a nord, nell’attuale Francia, Germania, Belgio e Inghilterra. Pensare quindi che i romani non fossero in grado di navigare nell’Oceano Atlantico, e soprattutto considerare le Colonne d’Ercole come un ostacolo insuperabile nel passato è un’idea completamente infondata!

Elio Cadelo nel suo libro, cita anche un passo del famoso “De Bello Gallico” di Giulio Cesare, in cui il potente imperatore ci descrive una grandiosa battaglia combattuta tra le flotte navali romane e quelle dei Veneti (Celti), proprio nell’Oceano Atlantico, questa è conusciuta come la “battaglia del Morbihan”.  Nel 57 a.C, Cesare, sconfitti i Belgi e i Germani, aveva ormai il dominio completo della Gallia, ma nel 56 a.C. alcune popolazioni si ribellarono, e la loro coalizione era guidata dai Veneti, un popolo marittimo stabilitosi sulle coste tra la Bretagna e l’Aquitania. Secondo Cesare, la loro principale forza era nella flotta navale, che egli descrive nel capitolo III al versetto 13 del suo De Bello Gallico:

« Le loro navi, infatti, erano costruite e armate in questo modo: le carene, alquanto più piatte di quelle delle nostre navi, erano più adatte a navigare su bassi fondi e ad affrontare il riflusso delle maree; eccezionalmente alte a poppa e a prua, resistevano più agevolmente alle enormi ondate e alle tempeste; tutta la nave era costruita in legno di quercia, le traverse fatte di travi alte più di un piede erano fissate con chiodi di ferro, le ancore erano assicurate con catene di ferro, al posto delle vele usano pelli e cuoio morbido. I rostri delle nostre navi non potevano recar loro alcun danno ».

In questo caso, abbiamo a che fare con stupefacenti imbarcazioni per l’epoca, costruite chiaramente per poter riuscire a navigare in mari tempestosi e affrontare l’oceano. Come vedremo più avanti, i Romani presero spunto proprio dalle incredibili flotte dei Veneti, per apportare successivamente delle modifiche alle loro navi. Secondo l’autore, le flotte romane non erano affatto come ci vengono spesso presentate nei documentari, o in alcuni film hollywoodiani, ossia navi di modeste dimensioni, spinte da schiavi costretti a remare fino allo sfinimento e munite di una sola ed unica vela quadrata. Di navi romane infatti, ne esistevano di varie tipologie, e su quelle destinate alle lunghe navigazioni e alle battaglie, non vi erano assolutamente schiavi che remavano. Generalmente queste imbarcazioni erano composte da tre alberi con immense vele, e quelli a bordo sarebbero stati esclusivamente soldati della marina ben pagati, che avrebbero remato solo per certi tipi di manovre e nei pressi della costa, dove l’acqua è più bassa e il vento è debole rispetto al mare aperto. Con i seguenti mosaici di epoca romana ritrovati ad Ostia, potete farvi un’idea di come dovevano essere realmente le navi delle flotta dell’Impero.

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Come vedete, queste navi raffigurate dai Romani erano prive di remi, o meglio, possedevano solo quelli che bastavano per la manovra, che fungevano come una sorta di timone. Osservando questi splendidi mosaici, appare evidente che le flotte romane erano dotate di grandi vele che permettevano loro di navigare sfruttando tranquillamente i venti. Nel primo mosaico abbiamo la rappresentazione di due grandi navi munite di diversi alberi e vele enormi, e la nave di sinistra, ne aveva addirittura tre. Sembra quasi di vedere una delle caravelle che portarono Cristoforo Colombo in America. Questi prototipi di nave, che in alcuni casi arrivavano addirittura ad una lunghezza di 50 – 60 metri, erano in grado di affrontare tranquillamente l’Oceano Atlantico, e secondo Elio Cadelo, la costruzione di queste imbarcazioni “speciali”, era considerata decisamente “top secret”, e qualunque persona venisse trovata all’interno del cantiere navale senza autorizzazione sarebbe stata giustiziata, proprio perchè gli stessi Romani, tenevano in gran segreto sia le tecniche di costruzione, ma soprattutto certi tipi di rotte. D’altronde, credo che anche noi se fossimo stati degli imperatori Romani, al corrente che oltre l’oceano si estende una terra sconfinata ricca di risorse e materie prime, avremmo tenuto ben nascoste quelle rotte. L’Oceano Atlantico, così come quello Indiano, era spesso navigato in antichità da diverse flotte, e per Cadelo, lo navigavano i Fenici, i Babilonesi, gli Indiani, i Cinesi ecc. ecc., insomma, in tempi remoti, ci sarebbe stato un traffico marittimo molto più sviluppato e intenso di quello che ci immaginiamo, anche perchè, come sottolinea lo stesso autore, le strade non esistevano prima dell’Impero Romano, e un po’ ovunque nel mondo erano stati già costruiti da millenni moltissimi porti, e i viaggi per mare, oltre che più rapidi, erano anche più sicuri per qualunque grande impero.

Su alcune isole, che all’epoca dei romani venivano chiamate “Isole Fortunate”, situate proprio nell’Oceano Atlantico e che oggi corrispondono alle Canarie, nel corso di diversi scavi archeologici sono stati portati alla luce molti reperti e manufatti apppartenenti a varie culture, come quella romana, fenicia, etrusca, greca ecc. ecc.. Ma stranamente, in questo gruppo di isole non sono presenti particolari materie prime, la terra non è rigogliosa e l’agricoltura è poco sviluppata, e anche i minerali qui scarseggiano. Ma allora perchè questi potenti imperi scelsero proprio questo gruppo di isole, se queste non offrivano alcun tipo di risorsa? Probabilmente, la risposta che Cadelo da a questo quesito, è corretta e coerente. Egli spiega infatti che le isole Canarie, sono un punto strategico per la navigazione, soprattutto se si volesse intraprendere un viaggio verso le Americhe, dato che proprio in corrispondenza di questo piccolo arcipelago, passa un tipo di corrente marina che favorirebbe la navigazione verso ovest nel mare aperto. Le isole Canarie, vennero infatti scelte anche da Cristoforo Colombo millenni più avanti come porto per sostare con le sue tre navi e fare rifornimento, per poi proseguire il viaggio verso il Nuovo Mondo. Qui sotto, potete vedere la rotta dell’andata, compresa la sosta alle isole Canarie, e la rotta del ritorno, eseguite dalle caravelle di Cristoforo Colombo tra il 1492 e il 1493.

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Immagine presa da focusjunior.it

Uno degli accenni storici più sorprendenti ci arriva da Plinio il Vecchio, che ci dice che a 40 giorni di navigazione dalle isole Fortunate, si trova un continente. Ma di che continente ci sta parlando Plinio? Cadelo, riporta anche un testo del filosofo greco Aristotele, che ci dice che un tempo, il Senato di Cartagine, scoprendo che alcune navi cartaginesi erano arrivate in una terra ricchissima di materie prime e minerali, cominciò a temere che questo potesse sconvolgere gli equilibri geopolitici dell’Impero, quindi vietò a chiunque di recarsi in quelle terre, pena, la morte. Ma di che continente ci stava parlando Plinio il Vecchio? E’ la stessa terra ricca di minerali scoperta dalle flotte cartaginesi citate da Aristotele? Questa terra lontana potrebbe essere proprio l’America?

Secondo Elio Cadelo non ci sono dubbi: “Le scoperte archeologiche e letterarie di età classica, provano che i Romani visitarono l’America 1500 anni prima di Colombo. Roma in età imperiale era in possesso delle conoscenze scientifiche, astronomiche, nautiche e geografiche necessarie per attraversare l’oceano Atlantico e giungere nel Nuovo Mondo. I testi latini parlano di nuove terre ad ovest mentre numerosi manufatti esposti nei musei italiani ed europei provano che tra le due sponde dell’Atlantico ci furono scambi. I Romani furono grandi navigatori: ad est commerciavano con l’India, la Cina, il Vietnam, l’Indonesia e le loro esplorazioni li condussero fino alle isole del Pacifico e oltre. A nord raggiunsero le Orcadi, l’Islanda, la Groenlandia e forse, lungo quella rotta, giunsero oltre. In Africa la presenza di Roma è testimoniata da numerosissimi reperti rinvenuti sia sulla costa Occidentale sia su quella Orientale. II resoconto di questi viaggi è negli scritti di Plinio, Tolomeo, Erodoto, Seneca, Diodoro Siculo, Plutarco, Tacito, Virgilio e molti altri autori latini e greci. I marinai romani avevano capacità tecniche e scientifiche tali da permettere di calcolare la longitudine”.

Un’altra prova archeologica a supporto della teoria di Cadelo, è la piccola testa in terracotta di epoca romana che potete vedere nelle 2 foto qui di seguito. Incredibilmente questo piccolo manufatto, venne ritrovato nel 1933 in un’area archeologica chiamata Tecaxic-Calixtlahuaca nella valle di Toluca, in Messico.

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Nel 2001, le analisi fatte da Romeo H. Hristov della University of New Mexico e Santiago Genovès T. dell’Università Nazionale Autonoma del Messico, e successivamente da Bernard Andreae, direttore emeritotedesco dell’Istituto di Archeologia a Roma, hanno confermato che si tratta di un manufatto molto antico, proprio di origine romana. Ma cosa ci fa un reperto del genere in Messico? Alcuni scettici, che naturalmente non riportano nessun tipo di prova a sostegno della loro teoria, credono che il manufatto sia stato gettato di proposito da qualcuno durante i primi scavi nel sito archeologico. Questo potrebbe anche essere vero, ma credo che rigettare a priori le varie teorie e non considerare minimamente le prove che ci vengono fornite dall’archeologia, o dai resoconti degli storici dell’epoca, non sia il metodo più corretto, anzi, credo che per poter fare luce su alcuni “pezzi”di Storia dimenticata, la cosa giusta da fare sarebbe analizzare e studiare attentamente i vari indizi e le prove che piano piano stiamo raccogliendo.

Un’altra incredibile scoperta, venne fatta nel 1886 in Texas, quando venne ritrovato il relitto di un antico natante romano e diverse monete imperiali romane sparse un po’ ovunque nel territorio circostante. Non solo, il professor Valentine Belfiglio della Texas Woman’s University, nonchè pluripremiato studioso, analizzando l’antica tribù dei Karankawa che vivevano in Texas, ha riscontrato che molti dei termini e delle parole che venivano pronunciate da questa remota tribù, che purtroppo ora si è estinta, presentano tracce della lingua latina parlata dai romani durante l’epoca imperiale. Qui di seguito, potete vedere lo studio di Belfiglio sul vocabolario etimologico dei Karankawa (ridisegnato da me per una maggiore leggibilità e visibilità), con tanto di parole messe a confronto con quelle latine.

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In fondo all’articolo troverete il link di un’interessantissima intervista di Osvaldo Carigi fatta al professor Valentine Belfiglio, che vi consiglio vivamente di leggere e vi servirà per approfondire la scoperta del ritrovamento del natante romano in Texas e l’interazione fra i romani e la tribù dei Karankawa. Inoltre, Belfiglio nella stessa intervista riporta altre scoperte archeologiche fatte in suolo americano, che riguardano alcune monete e diversi manufatti di epoca romana, come ad esempio delle pesanti travi di un ponte di legno molto antico, scoperte nell’isola di Galveston (Texas) nel 1915, che lo stesso Belfiglio sospetta possano essere state piantate lì dai romani, dato che i Karankawa che vivevano in quell’area, non possedevano sicuramente le conoscenze architettoniche e la tecnologia per costruire una struttura simile.

Arrivando alle conclusioni, si può affermare con totale serenità che i Romani, così come altri popoli sorti nel Mediterraneo, avevano tutte le “carte in regola” per poter attraversare l’Atlantico, avevano i mezzi e sicuramente molte conoscenze del mare, della longitudine e in generale della navigazione. Credo che l’Impero Romano e le altre grandi civiltà del tempo, siano davvero giunti in America, in una terra lontano da casa ricca di risorse e minerali. Alcuni imperi avrebbero potuto tenere nascoste quelle rotte, proprio perchè temevano di dover poi dividere le materie prime con gli altri grandi imperi, e alcuni, come ad esempio i cartaginesi, avrebbero temuto di rovesciare il proprio sistema geopolitico.

*Il discorso dei “Contatti fra le culture precolombiane dell’America e i popoli di tutto il mondo antico”, lo troverete esposto nei diversi articoli suddivisi per tema linkati qui di seguito. Buona lettura!

– 1/10: Introduzione

– 2/10: Barba, baffi e pizzetto nell’arte precolombiana del mesoamerica

– 3/10: Il contatto con i popoli negroidi

– 4/10: Antichi egizi nel Mesoamerica

– 5/10: Asiatici in Mesoamerica.

– 6/10: I romani arrivarono in America?

– 7/10: Il contatto con i popoli della Mesopotamia

– 8/10: Gli antichi egizi hanno visitato il sud America?

– 9/10: Altri indizi del contatto con stranieri 1/2

– 10/10: Altri indizi del contatto con stranieri 2/2

 

Link utili:

Conferenza di Elio Cadelo – Prima parte

Conferenza di Elio Cadelo – Seconda parte

Conferenza di Elio Cadelo – Terza parte

Conferenza di Elio Cadelo – Quarta parte

Intervista di Osvaldo carigi fatta a Valentine Belfiglio

Battaglia del Morbihan

L’America in realta fu scoperta dagli antichi romani, ecco le prove!

Tecaxic Calixtlahuaca

Sfericità della Terra

Emilio Biagini – La bufala della terra piatta

Aristotele

Dizionario dei faraoni – Erodoto e Neko II

Foto mosaici romani Ostia – linklinklinklinklink